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Montascale per Anziani e Disabili

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          Proteggere la propria indipendenza: è da qui che tutto comincia.

          Un bisogno profondo, umano, che va oltre la semplice autonomia fisica. È il desiderio di continuare a scegliere, di muoversi nel mondo con libertà, senza sentirsi limitati o definiti dalle proprie difficoltà.

          Da questo punto siamo partiti per una riflessione più ampia con Massimo Giandinoto, campione paralimpico e simbolo di resilienza, per parlare di cosa significhi davvero rimanere indipendenti.

          Perché sappiamo bene quanto possa essere complesso affrontare ogni giorno piccole e grandi sfide: scale da salire, spazi che sembrano troppo stretti, gesti quotidiani che richiedono uno sforzo in più. E sappiamo anche quanto sia difficile, a volte, chiedere aiuto.

          Molte persone non usano strumenti che potrebbero migliorare la loro mobilità non per mancanza di bisogno, ma per timore. Timore di vedersi diversi, di sentirsi “più fragili” agli occhi degli altri. È un pensiero che conosciamo bene, e che vogliamo contribuire a cambiare.

          Per questo abbiamo scelto di parlare con Massimo: un atleta che, ancora oggi, continua a spingersi oltre, grazie anche alla tecnologia. È un esempio concreto di come la forza interiore e l’innovazione possano camminare insieme, trasformando una difficoltà in una possibilità. Massimo è la dimostrazione che indipendenza non significa fare tutto da soli, ma avere gli strumenti giusti per vivere la vita che si desidera.

          Da anni, in Ceteco, accompagniamo persone che, come lui, hanno deciso di non rinunciare alla propria libertà. I nostri montascale, servoscala e miniascensori non sono semplici impianti: sono alleati silenziosi che aiutano a superare le barriere, visibili e invisibili.
          Ogni installazione nasce da una storia diversa: quella di chi convive con una disabilità, di chi inizia a sentire le gambe meno forti, o di chi semplicemente vuole sentirsi sicuro nella propria casa.

          Conosciamo bene il valore che si nasconde dietro ogni scelta di autonomia. È per questo che proponiamo soluzioni pensate su misura, non solo per le esigenze pratiche, ma anche per il benessere emotivo. Perché la libertà non è un lusso: è un diritto che va custodito.
          Massimo-Giandinoto-campione-paralimpico-intervista

          E allora, partendo da questa consapevolezza, abbiamo chiesto a Massimo Giandinoto di raccontarci cosa significhi per lui continuare a essere indipendente, ogni giorno.

          • Qual è stato il momento in cui hai capito che non era una sconfitta, ma una possibilità?

          Avevo 26 anni quando, guardando in televisione le Paralimpiadi di Londra, ho capito che era arrivato il momento di cambiare prospettiva: smettere di vedermi come una persona “disabile” e riconoscermi come un individuo che poteva tornare a correre, nonostante tutto. Il famoso bicchiere mezzo pieno: invece di concentrarmi su ciò che mancava, ho iniziato ad assaporare tutto ciò che avevo ancora.

          • Quanto la tua famiglia ti è stata accanto? E in che modo ti ha aiutato?

          La mia più grande fortuna è stata — e continua a essere — il sostegno della mia famiglia. Per me è sempre stato fondamentale circondarmi di persone che mi vogliono bene e credono in ciò che faccio.
          Durante la malattia, i miei genitori, mia sorella e tutti i miei parenti mi sono stati accanto, aiutandomi ad affrontare quel periodo nel modo migliore possibile. Oggi ho accanto anche mia moglie Rossella, mio figlio Noah e tutta la sua famiglia, che mi sostengono ogni giorno.

          Ho imparato che, se vuoi realizzare qualcosa di grande, devi accettare che non tutti saranno dalla tua parte. Ma se scegli di camminare insieme a chi ti vuole davvero bene, i risultati possono essere straordinari.

          • Dopo l’infortunio, hai trovato e cercato strumenti per continuare a salvaguardare la tua indipendenza: cosa significa quindi  “autonomia” per te?

          L’infortunio al ginocchio della gamba sana è stata un’ulteriore prova. Gli infortuni, per un atleta, fanno parte del gioco, ma quando compromettono sia la preparazione sia la vita quotidiana diventano un ostacolo enorme. 

          Bisogna capire che, per una persona con disabilità, l’indipendenza non è solo una necessità pratica: è una valvola di sfogo, una forma di riscatto nei confronti della vita. Non siamo nati per dipendere dagli altri, anche se purtroppo spesso accade. Ognuno di noi ha la propria storia, il proprio vissuto, e se esiste anche solo una piccola possibilità di restituire autonomia a una persona con disabilità, quella possibilità va colta fino in fondo.

          • Cosa diresti oggi a chi sente di non farcela più?

          Di non mollare. Troppo spesso leggo e vedo persone che combattono per una malattia, per il duro lavoro, per chi non riesce ad arrivare a fine mese. Siamo diventati un mondo di speranza, dove in pochi sanno davvero quanto sia importante essere felici. Credete in voi stessi, nelle vostre potenzialità, nei vostri progetti e nelle persone che vi circondano e che vi vogliono bene. Non mollate e credeteci. Sempre.

          • Cosa diresti a chi si trova davanti a una scelta difficile: accettare o rifiutare uno strumento che potrebbe cambiare la vita?

          “Sfruttare le occasioni”, direi semplicemente questo. Siamo nel mondo del futuro, abbiamo gli strumenti adeguati? Sì. Allora sfruttiamoli.

          • Quanto in questo la famiglia può essere importante? E cosa consiglieresti a un figlio per convincere i genitori a fare questo passo?

          Il supporto della famiglia, come dicevo prima, è fondamentale. La famiglia nasce dall’amore, dall’unione di persone che si vogliono bene davvero. Quando vuoi bene a qualcuno, desideri solo vederlo felice e sereno. E a volte, proprio quei sistemi di supporto che facilitano la vita quotidiana possono far tornare un sorriso atteso da tempo, anche sul volto di chi pensava di averlo perduto.

          • Cosa vorresti che cambiasse nella nostra società? Cosa significa, davvero, vivere in una società inclusiva?

          È un tema vasto, ma fondamentale. Oggi, incontrando migliaia di ragazzi e adulti, mi rendo conto che esiste ancora molta disinformazione sulla disabilità.
          Con il mio Progetto Scuola cerco di intervenire proprio su questo livello: mostro ai ragazzi come funziona la mia protesi e quanto, oggi, sia possibile fare tutto ciò che si ama, senza limiti imposti dallo sguardo degli altri. 

          La disabilità viene ancora troppo spesso percepita come una diversità senza via d’uscita, come una condizione immutabile. Ma io, e le persone che mi circondano, vogliamo dimostrare il contrario: la svolta esiste. Posso andare in giro in pantaloncini, stare al mare senza protesi, godermi la vita come chiunque altro. Perché l’inclusione non è compassione: è libertà di essere se stessi, sempre.

          • Come possiamo sensibilizzare davvero le persone su questi temi, che richiedono non solo empatia, ma anche la volontà di cambiare il nostro modo di guardare gli altri?

          Credo che tutto parta dall’esempio. Dobbiamo imparare a dare il giusto esempio, ogni giorno. Essere fortunati a non avere una disabilità non significa restare indifferenti: significa avere l’occasione di capire, di informarci, di avvicinarci a realtà diverse dalla nostra.

          Siamo nati per imparare, per ampliare continuamente la nostra prospettiva. E conoscere il mondo della disabilità – con le sue sfide, ma anche con la sua forza – è un modo per diventare persone più consapevoli, più aperte e, semplicemente, più umane.

          • Cosa significa essere per te un esempio per gli altri?

          Sento prima di tutto una grande responsabilità. Cerco di far capire quanto una corretta divulgazione possa diventare un aiuto concreto per chi ha smesso di credere in se stesso. Quando avevo nove anni, Internet non era diffuso come oggi, e io non avevo modo di sapere come sarebbe stata la mia vita con una protesi. Navigavo nel buio, senza esempi a cui ispirarmi.

          Purtroppo, queste malattie colpiscono ancora molti bambini, e il mio obiettivo ora è proprio questo: essere quella storia, quella testimonianza che un bambino di nove anni possa trovare online e pensare, con un sorriso, “se ce l’ha fatta lui, posso farcela anch’io”.

           

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